Quando l’autobus si ferma per una sosta a Cerro Castillo, paesino sulla frontiera cilena della Patagonia meridionale, mi risveglio dal torpore che mi aveva assalito per colpa del solito riscaldamento eccessivo di tutti gli autobus cileni. Sono le quattro del pomeriggio di quella che, stamattina, Ruggero aveva definita un giornata patagonica. Ruggero e’ un trentino che da tre anni vive in terra argentina; e’ stato guida andina in Terra del Fuoco e conosce il clima di questi luoghi. Una giornata patagonica e’ una giornata di venti impazziti, tanto da abbattere le tende degli escursionisti in montagna e da far ondeggiare camion e auto nel loro cammino. Cosi’, ancora intorpidito come in dormiveglia, vedo una donna attraversare la strada sterrata con in braccio il figlio, avvolto in una coperta che lo protegge dal vento. Comincia cosi’ il relato di una settimana surreale per le montagne, con quel primo evento normale che mi risveflia di colpo e mi riporta con i piedi e la testa per terra.
Il “circuito”, nel parco nazionale Torres del Paine, e’ un anello di circa 130 chilometri di eccessi, nel bene e nel male. Innanzitutto il parco appare da subito come uno strano incrocio tra un castello ed un parco divertimenti per scalatori, con guglie, ghiacciai e picchi aggrappati fino a tremila metri sopra l’ondulato paesaggio collinare che lo circonda. Un nugolo di personaggi inusuali si aggira per queste montagne, sovraffollandole. Ho visto comitive di americani (USA), armati di bastoncini da trekking, scarponi, cappellino e uno zaino minuscolo, salire ordinatamente per il sentiero in fila indiana, salutando con un “Holah” chiunque incrocino per il cammino, e battaglioni di israeliani battagliando contro il tempo e il tempo (atmosferico), a volte persino contro i guardaparco degli accampamenti a pagamento, quasi tutti con gli stessi sandali azzurri – sono garantiti a vita, dicono – a penzoloni dietro gli zaini. Ho visto gente portare avocado, o pacchi di dieci banane, alla partenza per una camminata di dieci giorni, altri superequipaggiati per camminare solo per paio di ore. Ci sono alberghi vicini alle cime (pochi e piccoli, ma ci sono), e gite in barca per i laghi che abbracciano il massiccio Paine con panorami mozzafiato, e camping con docce calde come benedizioni in un giorno di pioggia quando tutto, in te e nel tuo zaino, fino al sacco a pelo e’ fradicio. Una ragazza con i piedi recentemente operati piangeva scendendo un sentiero dalle pendenze impossibili, dal passo John Gardner verso l’accampamento successivo, le ho dovuto togliere lo zaino e portarlo fino a valle, un’ora e ottocento metri piu’ in basso. Ho conosciuto dei carabinieri abbandonati in un avamposto al limite di un ghiacciaio vicino alla frontiera, tanto isolati da bramare l’arrivo del turista per rifocillarlo con pane ammassato da loro e un abbraccio – un abbraccio – come saluto. Una ragazza cilena voleva buttare le scarpe da ginnastica dopo solo tre dei centotrenta chilometri, per alleggerire lo zaino che la angustiava, mentre un’altra mi ha passato a doppia velocita’ sul ripido pendio che sale al passo Gardner. Centinaia di persone e di storie sovraffollano queste montagne ma…
Ma questi chilometri, e tutte queste ore con lo zaino sulle spalle, dilatano la percezione del tempo e mettono in fuga ansia e fretta: non ci si sente ne’ persi ne’ asfissiati dalla distanza che separa dalla meta. Diventa tutto ben presto un’abitudine piacevole: il gesto di montare e smontare la tenda meccanico, indolore quello di lavare il pentolino in cui cucini tutto, con il freddo e con l’acqua gelida, e grattando con le dita fino a liberarti dei residui di cibo (se come me ti dimentichi di una spugna). Rimane il ritmo ipnotico dei tuoi passi e dello scorrere lento delle montagne, dei laghi e dei ghiacciai, rimane la sensazione del vento in faccia, tanto forte da non permetterti, a volte, il respiro durante il cammino e, la notte, da minacciare di portare via la tua tenda, e te e il tuo zaino con lei, in un qualunque momento. Rimane il torpore che la stanchezza ti lascia dentro, e che ti permette di andare a letto alle nove di sera, e lo stordimento nel vedere il primo veicolo a motore, all’alba del sesto tramonto. O quello di vedere, dal finestrino di un autobus, una donna portare in braccio il proprio bambino nel vento.